La paura è nei cromosomi?
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Foto: Fabio Ricci |
È di qualche tempo addietro l’annuncio da parte di un’équipe di biologi che è stato individuato il gene della paura. Ovvero la paura, oggi componente determinante del vivere nel mondo occidentale di fronte al dilagare del terrorismo, è insita nell’uomo, di qualunque estrazione razziale, culturale, sociale, esso sia.
In realtà, noi crediamo che gli scienziati abbiano commesso un piccolo errore: hanno individuato il gene del timore, non quello della paura. E non vi sembri questo un gioco di parole.
La paura è una reazione irrazionale, che spinge alla fuga (in greco fobéomai, “aver paura”, viene proprio da “fuggire”, fébomai), che suppone un castigo, che sobilla, in mancanza di possibili fuoriuscite evasive, al duello. È una passione da cui liberarsi, come auspicavano gli stoici, verso l’atarassia, la pacatezza e la serenità. Era considerata – è – quasi come un vizio.
Ben diverso il timore. Ovvero quel sentire fiducioso che, come scrive lo psicologo Umberto Galimberti, “concorre alla formazione della coscienza morale che argina le spinte trasgressive”.
Contrariamente alla resa allo sgomento dettata dalla paura, il timore induce al dialogo rispettoso e consapevole e spinge al rigore morale che sono la difesa più certa contro ogni arroganza, ogni brutalità, ogni disumanità. Anche, e potremmo dire soprattutto, quelle che si autoproclamano – invocando “invano” il nome di Dio – etiche, morali, “sante”.
“Abbiamo bisogno di ritrovare”, scrive Gianfranco Ravasi, “quel timore che è rispetto per l’altro, ossia il prossimo, e per quell’Altro, che è Dio o il mistero (secondo le diverse opzioni)… Abbiamo bisogno di ritrovare quel timore che è fiducia e fraternità, perché tutti siamo creature, partecipi delle stesse paure e della stessa fragilità “adamitica”.”
E, confermano i biologi, possiamo farlo guardandoci dentro, scrutando la nostra umanità, impegnandoci nell’individuare la nostra identità, quindi le nostre possibilità e i nostri limiti.
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